Si faccia un confronto tra gli ingegneri di Google e i giornalisti. Questi ultimi, magari, amano credere di essere gli unici capaci di riflettere o documentare quel che accade nel mondo in senso ampio. Ma è un ingenuo il giornalista che non vede come la sua pratica, in corso d’opera, trasformi la realtà, introducendo nuovi (e spesso inquietanti) incentivi – per esempio, parlare per slogan o enfatizzare le parti più populiste del proprio messaggio – nelle dinamiche politiche. La realtà può essere registrata, d’accordo, ma i giornali, le stazioni radio e i canali tv sono anche sistemi socio-tecnici complessi, in cui migliaia di attori perseguono i propri particolari obiettivi, che spesso hanno poco o nulla a che vedere con la registrazione della realtà in quanto tale.
Era il 1986 e nelle redazioni dei giornali si facevano lotte sindacali per difendere la macchina per scrivere e non imparare a usare i computer.
Nel 2001 ero appena arrivata in Rai e nella redazione c’era un solo pc in una scrivania vuota. Scelsi di sedermi lì chiedendo di poterlo accendere. «Non dire che lo sai usare altrimenti ti chiederanno di farlo», mi suggerì una collega che non ascoltai. Due mesi dopo lavoravo sul sito di Radio 1.
Opporre resistenza è inutile: ne ho parlato su LinC (clicca sull’immagine per leggere l’articolo): ora che la paura non è più quella verso l’hardware, ma verso il software il discorso non cambia poi molto.
Già, come dice Evgeny Morozov (da cui ho tratto i corsivi): Internet non salverà il mondo e no, non ruberà il lavoro. Non a tutti, almeno. Un algoritmo può scrivere, ma scrivere una storia significa raccontarla dal proprio punto di vista. Ho qualche dubbio che gli algoritmi possano essere utili (e a breve) per qualsiasi tipo di contenuto. E questo dubbio non riguarda solo il nostro modo di scrivere, leggere, trovare le notizie.
(…) si ripresenta l’eterno dilemma degli algoritmi: la loro presunta obiettività e la loro oggettiva mancanza di trasparenza.
Non siamo autorizzati a esaminare gli algoritmi di Amazon, giacché sono del tutto opachi e refrattari ai controlli esterni. Amazon sostiene, forse non a torto, che la segretezza le consente di mantenere la propria competitività. Ma è lecito applicare la stessa logica all’attività di vigilanza? Se non si possono controllare gli algoritmi – come probabilmente succederà anche nel caso dei programmi predittivi della polizia, dato che sono messi a punto da aziende private – nessuno potrà sapere quali pregiudizi e pratiche discriminatorie contengano. E gli algoritmi stanno prendendo sempre più piede anche in molti ambiti del nostro sistema giudiziario: per esempio, vengono usati per calcolare quante probabilità ha un certo pregiudicato – in libertà condizionale o vigilata – di uccidere o di essere ucciso. (…) Ma come facciamo ad accertarci che gli algoritmi impiegati per le previsioni non riflettano i pregiudizi dei loro creatori?
Sì ho visto la season finale di Person of Interest.
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La questione degli algoritmi ha suscitato anche il mio interesse. E sì, credo nasca dall’aver visto (anch’io) la stagione finale di person of interest.
1986: i giornalisti facevano lotte sindacali per non imparare a usare i computer http://t.co/4mVoqyty6D http://t.co/Oo049dBz2c
“Ma come facciamo ad accertarci che gli algoritmi impiegati per le previsioni non riflettano i pregiudizi dei loro creatori?”
– la domanda è errata, la domanda giusta, l’unica domanda da farsi è : funzionano ? Che % di errore hanno ? Se funzionano qualunque sia il metodo è giusto se no è sbagliato. L’etica non c’entra niente.
devi leggere Morozov, come scrivevo su, la citazione è da Internet non salverà il mondo (Mondadori)
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