La notizia: la BBC ha perso 60mila follower.
In breve: la giornalista Laura Kuenssberg, dopo aver lasciato il posto di corrispondente politico alla BBC per la ITV, ha rinominato il suo account di Twitter da @BBCLauraK a @ITVLauraK. Ai follower – guadagnati grazie al lavoro con la BBC – ha lasciato un messaggio, sperando di non perderli, invitandoli a seguire il nuovo corrispondente politico della rete.
Un altro caso: Charlotte Hawkins twitta come @skycharlotte e ha oltre 26mila follower. La giornalista di Sky News interagisce con i telespettatori prima e dopo il programma, durante la diretta come sottopancia viene visualizzato il suo nickname.
Tutta pubblicità! Sì, ma a chi?
In Italia: il caso (di divorzio) è quello di Riccardo Luna, non più direttore di Wired, che continua – a differenza della giornalista della BBC – ad associare, nell’account @riccardowired, il suo nome con il brand della testata per il lancio della quale ha forse imparato a usare Twitter.
Riccardo Luna dice che non intende cambiare nickname.
È giusto? Sbagliato?
Sono curiosa, allora l’ho chiesto a Ernesto Belisario, avvocato esperto di diritto 2.0.
L’utilizzo di nuovi strumenti, da sempre, pone nuove questioni giuridiche (prima sconosciute): i Social Media non fanno eccezione a questa regola.
Specialmente all’inizio, aziende e professionisti si sono iscritti ai diversi Social Network Site senza pensare a quello che sarebbero diventati, non ponendosi alcune importanti questioni (ad esempio, cosa sarebbe successo all’account del giornalista in caso di passaggio ad un’altra testata).
Se questo atteggiamento disinvolto era comprensibile fino a qualche tempo fa, adesso non è più opportuno (né consigliabile) procedere in modo spontaneistico e disorganizzato; ormai conosciamo i Social Media e le loro principali implicazioni giuridiche, anche con riferimento all’organizzazione interna e ai rapporti tra aziende e collaboratori.
Di conseguenza, nell’ottica di un approccio strutturato, è assolutamente auspicabile l’adozione di un documento (c.d. “Social Media Policy”) in cui, tra le altre cose, disciplinare proprio quale uso i dipendenti possono fare di questi nuovi strumenti, definendo in modo chiaro tutti i profili più delicati, evitando polemiche e critiche, oltre a eventuale contenzioso.
Anche la BBC ha una Social Media Policy in base alla quale gli account che contengono “BBC” nel nome sono controllati dall’Azienda; questo significa che o la BBC ha consentito (con invidiabile fair play) alla Kuesnssberg di portare l’account con sé, oppure (visto che la policy risulta aggiornata il 12 luglio 2011) ha tratto insegnamento dalla vicenda e non vuole che si ripeta più un caso del genere.
In Italia come funziona (o come dovrebbe funzionare)?
Nel nostro Paese non funziona in modo diverso. Non vi sono regole specifiche in materia di Social Media (fortunatamente, visto il livello di “alfabetizzazione tecnologica” del nostro legislatore). Tuttavia, proprio per questo motivo, considerata la sempre maggiore importanza della presenza on line, un numero crescente di aziende di ogni settore inizia ad adottare proprie Social Media Policy, coinvolgendo in questo processo l’ufficio che si occupa delle risorse umane e quello legale. Ci sono, infatti, anche criticità legate allo Statuto dei Lavoratori (è vietata ogni forma di controllo a distanza nei confronti del dipendente), di privacy e – appunto – di titolarità dell’account.
Quindi, di chi è il mio twitter?
Parto da una considerazione banale: l’account è di chi lo registra, in quanto il profilo sui Social Media viene aperto stipulando un vero e proprio contratto con il fornitore del servizio (c.d. “contratto di social networking”).
Di conseguenza, se l’account è creato dall’azienda e promosso e controllato dalla società, anche se è gestito dal collaboratore come parte delle proprie mansioni lavorative, non v’è dubbio che ne sia titolare l’azienda. Viceversa, se è aperto dal singolo, non è controllato dal datore di lavoro, non viene utilizzato per rappresentare le opinioni della società, ne è chiaramente titolare il collaboratore.
Naturalmente, sono sempre più le aziende che nella propria Social Media Policy decidono di disciplinare anche l’uso che il proprio dipendente/collaboratore fa dell’account personale, specialmente con riferimento a tutti i possibili punti di contatto con l’attività lavorativa (ad esempio: rapporti con i colleghi, notizie apprese nello svolgimento dell’attività lavorativa, divieto di concorrenza).
Sono l’azienda: cosa posso fare?
Sono il giornalista: che rischi corro?
Poniamo il caso che si verifichi in Italia un caso simile a quello della giornalista della BBC. In assenza di specifiche disposizioni contrattuali, l’account aperto dal giornalista, su cui non vi sia alcun controllo dell’azienda, resta al collaboratore che può lecitamente cambiarne la denominazione.
Inoltre, a mio avviso, pur dovendo valutare la situazione caso per caso, è utile ricordare che le “Regole di Twitter”, espressamente richiamate dalle condizioni d’uso del servizio, prevedono che non possano essere usati nomi utente che corrispondano (del tutto o in parte) a nomi di aziende “che detengono diritti o marchi su quei determinati nomi utente”.
Di conseguenza, se fossi un’azienda, non potrei pretendere il trasferimento dell’account (e quindi del patrimonio di contatti), ma – nel caso in cui non venga cambiato il nome del profilo – potrei richiedere ed ottenere da Twitter la cancellazione dell’account che contenga il mio nome e, comunque, laddove l’account venga utilizzato per ingenerare confusione o sviamento in mio danno, adire le vie legali, ad esempio chiedendo il risarcimento dei danni provocatimi (anche per concorrenza sleale).
Di conseguenza, il giornalista è esposto ad una serie di rischi che vanno dalla chiusura dell’account ad azioni legali per concorrenza sleale e sviamento di clientela.
SULLO STESSO ARGOMENTO (FORSE):
Tagged: gente che sa usare Twitter, giornalismo, Personal Branding, telegiornaliste, tv, twitter
Articolo molto interessante. Andrebbe considerata un’ulteriore casistica, probabilmente la più professionale e contemporaneamente la più complessa di tutte: quella dell’account aziendale gestito da più persone con strumenti collaborativi tipo Hootsuite, Timely o altri.
e in quel caso che problemi legali vedi?
Le diverse combinazioni dei problemi legali evidenziati nel post con in più le variabili dei diversi collaboratori, se tutto è stato organizzato spontaneisticamente. Tralasciando il caso più rettilineo e consapevole (l’azienda dà incarico a un capo progetto di gestire l’account, insieme a un team organizzato di collaboratori: l’account è dell’azienda, capoprogetto e collaboratori lavorano sull’account in base ai termini del contratto o finché godono della fiducia dell’azienda) è per esempio possibile che un collaboratore dell’azienda crei in forma volontaristica un account aziendale, di prodotto o di progetto, poi si organizzi per gestirlo con metodi collaborativi (Hootsuite, Timely o altro), quindi sorge l’imprevisto (dimissioni, licenziamento, lite) che crea il problema: “di chi è l’account?”, con in più la variante: “Qual è il peso dei singoli collaboratori?” ecc ecc ecc.
Oltre alla casistica dell’account “istituzionale” (per certi versi la più semplice), possono inoltre esserci casistiche di account di prodotto o di singolo progetto (ad esempio un account creato in occasione di una fiera, magari sempre in modo autonomo dal solito dipendente di buona volontà), anche in questo caso gestite in forma singola o collaborativa.
Pezzo interessante. La questione di una social media policy dovrebbe essere presa in considerazione dalle aziende.
Un gran bel quesito. Io credo che se ottieni popolarità (followers) attraverso una posizione di vantaggio (inserendo il brand dell’azienda per cui lavori), dovresti ‘rinunciarvi’ una volta uscito dall’azienda. se la tua identità è forte, i followers rimarranno. Se da chiedevano news fresche di redazione…non lo potranno più avere, è scorretto mantenere quel nome, fuorviante, per i nuovi followers.
Una precisazione: solo chi non ha conosciuto Riccardo Luna può affermare che ‘ha forse imparato a usare Twitter’. Non condivido per nulla.
Bel post.
[…] queste ed altre domande ho provato a rispondere in un’interessante intervista che mi ha fatto Domitilla Ferrari che vi segnalo con piacere (la trovate sul blog di Domitilla a […]
[…] Non basta un disclaimer per evitare il licenziamento (“Views are my own” è il più diffuso, come se ci potessero essere anche opinioni conto terzi), così come manca una definizione universale applicata ai social media di cosa sia personale e cosa non. D’altra parte, non solo in Italia, ma anche in Regno Unito e Stati Uniti non è ancora chiaro di chi sia l’account Twitter di un dipendente. […]
[…] Source: http://www.domitillaferrari.com […]