C’è differenza tra essere visibili e volerlo essere? Sì, c’è, ovvio: c’è la stessa differenza tra essere bravi e raccontare di esserlo (cosa che io – un po’ per gioco, un po’ per darmi pacche sulle spalle da sola – faccio spesso).
Qui, quindi, è dove mi dico brava da sola, ma ammetto che chiamata come ospite nell’evento di Bookcity La cultura e i libri ai tempi dei social network, organizzato da Mentelocale, m’è venuto il dubbio di aver poco da dire.
a #IBMbevisible @AlessandroZonin mi ha chiesto come ho promosso #duegradiemezzo, ho risposto che non l'ho fatto: ora cosa racconto a #bcm14?
— Domitilla Ferrari (@domitilla) November 3, 2014
La traccia era questa:
È vero che un articolo esiste solo se ha mille condivisioni su Facebook?
Perché una catena di retweet vale più di una recensione?
Ci ho pensato ed ecco un riassunto di quello che forse dirò.
A cosa serve scrivere se nessuno legge?
Perché è questo il pericolo: tale è la sovrabbondanza di informazioni che possiamo trovare online, che ogni nuovo contenuto potrebbe essere già stato scritto da altri, meglio o in luoghi (siti) più evidenti, più… trafficati.
E in più c’è il dubbio che chi trovi una notizia online non la legga, non abbia tempo, voglia o abbia perso l’abitudine ad approfondire le cose. Sì, succede davvero.
Secondo alcuni (You’re not going to read this, but you’ll probably share it anyway) non esisterebbe correlazione tra il numero delle condivisioni sui social media e ciò che davvero la gente legge.
Più un contenuto è condiviso, più sembra letto
In che modo, quindi, a parità di condizioni (esistenza di una notizia o di una storia e qualità della scrittura stessa) è possibile che un contenuto possa risultare più interessante di un altro?
A volte la differenza la fa la riconoscibilità di un autore che con sé porta l’interesse di una audience preparata ad ascoltare ciò che ha da dire, da aggiungere, a una notizia.
Cosa significa essere riconoscibili in Rete?
E perché esserlo aiuta la diffusione dei contenuti?
Significa che per me che leggo è importante sapere chi ha scritto una cosa online. Non solo perché diventa una garanzia, in alcuni casi, ma perché sapere che c’è una firma crea più fiducia e quando ci si
(af)fida si condivide più facilmente e allora i contenuti – a volte anche se non memorabili – viaggiano più facilmente e quindi vengono letti da più persone.
Come si fa a diventare riconoscibili?
Per dimostrare di esser bravi bisogna imparare anche a dire di no. E anche a usare gli spazi giusti. Penso ai miei cattivi esempi, quelli che cito sempre perché ottimo esempio di cosa non voglio essere: i fuffologi, quelli che usano espressioni incomprensibili e perditempo, i tuttologi che s’infilano dappertutto, quelli che collezionano follower e così via. Sì, di cattivi esempi è pieno il mondo. Per fortuna.
Non ho fatto nulla per promuovere il libro, dicevo. Se non raccontare di me, di quello che faccio (come per metà del libro, tra l’altro). Ma come ricordo sempre: parlo di me perché sono l’esempio che conosco meglio.
La testimonianza di @domitilla a #IBMbevisible avere coraggio e fiducia nelle proprie capacità pic.twitter.com/dtukZ8p8iY
— Morgana Stell (@MorganaStell) November 3, 2014
Quindi anche quando è uscito Due gradi e mezzo di separazione ho fatto quello che avrei fatto arrivando per la prima volta nella piazzetta del paese di cui parlavo anche qua. Certo che non avrei messo grossi cartelloni pubblicitari a coprire la facciata di un palazzo. Mi sono presentata e ho iniziato a fare amicizie interessanti (molte delle quali anche interessate a quello che avevo da dire).
Ora io questa cosa qua la ripeto domenica a Bookcity insieme a Paola Bonini, responsabile Social Media del Comune di Milano, Tomaso Greco, ricercatore, co-fondatore di Bookabook, Maria Grazia Mattei, ideatrice di Meet the Media Guru, Marco Zapparoli, co-editore di Marcos y Marcos e Laura Guglielmi, direttore di Mentelocale.
Ci vediamo alle 15 a Palazzo Reale, nella sala conferenze al 3° piano.
Accorrete numerosi che le platee vuote mi mettono tristezza.
Sì, sabato invece sono a Glocalnews: alle 18.30 nel Salone Impero di Villa Panza, in piazza Litta insieme a Anna Prandoni, direttore de La cucina italiana e Marco Massarotto fondatore di Hagakure e de La Via del Sake. Ecco, lì parlerò di cultura, cibo e di come si raccontano online. E visto che pensavo di scrivere un altro post su questo ma temo che non riuscirò a farlo e che l’incontro Tra sensi e sensazioni: quando il cibo diventa cultura dà diritto a 2 crediti per la formazione giornalisti io me li guadagnerei rispondendo a un’annosa questione che affligge i giornalisti.
Quanto tempo serve per essere social?
SULLO STESSO ARGOMENTO (FORSE):
Tagged: #duegradiemezzo, extras, social media, uso di internet
A cosa serve scrivere se nessuno (ci) legge? appunti per quello che dirò a #bcm14 e #glocal14 http://t.co/mGUv26Fr8k
* A COSA SERVE SCRIVERE SE NESSUNO (CI) LEGGE? :: http://t.co/HXy7Ke2RI7
A cosa serve scrivere se nessuno (ci) legge? Spunti notturni e belle riflessioni di @domitilla http://t.co/ZkAJY1Zoi2
Perché una catena di retweet vale più di una recensione? @domitilla #bcm14 #glocal14 http://t.co/DiH4YddXto
RT @valefalci: A cosa serve scrivere se nessuno (ci) legge? per #bcm14 e #glocal14 http://t.co/xmcaoWLeQR via @domitilla
Già, a cosa serve scrivere se nessuno (ci) legge? http://t.co/QpyOEIbkli di @semerssuaq
oggi a #glocal14 guadagno 2 crediti rispondendo a un’annosa questione: quanto tempo serve per essere social? http://t.co/btIUG02SLe
Gli appunti di @domitilla in vista dell’incontro di questa sera a #glocal14 http://t.co/EtjomA3C1H
* A COSA SERVE SCRIVERE SE NESSUNO (CI) LEGGE? :: | Semerssuaq* http://t.co/x85Iytz6So
riassunti i cose di cibo, ieri a #glocal14 (in fondo al post) http://t.co/kcIXxfSLRt
“* A COSA SERVE SCRIVERE SE NESSUNO (CI) LEGGE? http://t.co/1guobcN0Ic
A cosa serve scrivere se nessuno legge? L’information overload ritorna @zenfeedme #bcm14 e #glocal14 http://t.co/iSEPAS3Ybv via @domitilla
Cara Domitilla,
ciò che scrivi a volte mi fa paura (la divisione fra tempo online e offline non esiste più, ma basta davvero poco – se lo vogliano – perché tornino a esserci salutari pause dall’essere connessi, sennò mica sarebbero di moda tutti ‘sti digital detox).
Dici che tu sei in comando di ciò che mostri agli altri, sottintendendo ciò – credo – nella storia del pigiama e della colazione. D’accordo. E tuttavia, mi chiedo se tu non ti sovraesponga.
Non sono qui per criticare come tu stia in rete – ognuno ci sta come meglio crede – ma per mettere in dubbio la trasparenza illusoria della presenza online. “Si vede, è trasparente = sono credibile”. “Ci metto la mia faccia, allora sì, mi riconoscono e leggono e mi credono”… e sì, che google mi riconosceva l’authorship (che sappiamo com’è finita). Non c’è la tua faccia, ah! allora hai qualche cosa da nascondere!
Eppure qualsiasi nostra costruzione sociale è fatta (anche) di finzione. O meglio: è studiata, artefatta. Altrimenti tutte scenderemmo dal letto e andremmo a lavorare, in uni, sulla metro senza trucco, etc.
Tornando alla mia affermazione iniziale: ti racconto la mia storia. Sono stata perseguitata da uno stalker, perciò quello che tu fai – e che io non posso permettermi – mi inquieta. Peraltro il fatto che qualcuno possa attribuirmi tutto ciò che scrivo, in ogni momento della mia giornata, quando magari ho uno scazzo, quando scrivo senza pensarci, quando faccio una battuta stupida, se metto su FB la foto del gatto, mi sembra idiota. E, per me, è stato per lungo tempo semplicemente pericoloso.
Perciò: credo che quello che scrivi possa essere vero per te, ma non lo strombazzerei ai 4 venti come legge universale. L’apertura “C’è differenza tra essere visibili e volerlo essere? Sì, c’è, ovvio: c’è la stessa differenza tra essere bravi e raccontare di esserlo”, mi sembra pura e semplice tracotanza.
Sai qual è la differenza? Tra l’essere state perseguitate da qualcuno e il non esserlo.
Un caro saluto
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