Davvero ha senso scrivere nella shortbio di Twitter frasi come speaking for myself o RT ≠ endorsement? E se sì, allora, perché solo su Twitter e non anche su Facebook, Instagram, Vine, ovunque?
Cosa si intende per social media policy e employee activism?
Ho chiesto a Ernesto Belisario, avvocato esperto di diritto delle nuove tecnologie (che avevo già intervistato qua) se ci fossero – nascosti da qualche parte – una riga di codice, un articolo, un’ipotesi a dar ragione a quanti lo fanno. E non c’è, però…
«Poniamo il caso di una testata o di una grande azienda, se il giornalista o il manager twittano dal loro account personale qualcosa di sconveniente o offensivo non credo che il disclaimer possa essere di grande aiuto. Sicuramente è una cautela che serve ad evitare che il messaggio possa essere ricondotto direttamente all’azienda o che si possa pensare che ci sia una qualche approvazione, ma non servono né a evitare un danno all’immagine aziendale né a evitare il licenziamento».
the grandma test come social policy: il buon senso conquisterà il mondo #vocidimpresa
— Domitilla Ferrari (@domitilla) June 6, 2014
Se è il buon senso che manca, allora serve davvero intervenire con… una social media policy?