Sì, sono 10 cose che fanno schifo a me, ma magari non solo a me per cui tienine conto che non si sa mai.
1. Non twittare la stessa frase citando gente a caso solo per farti leggere (è spam)
2. Non twittare solo link del tuo blog (almeno scrivi qualcosa)
3. Non twittare da Facebook (tollero il contrario: se importi Twitter in Facebook, ma solo se eviti di condividere anche le risposte a chiunque)
4. Non intervenire sempre su tutto (la tuttologia dovrebbe essere riconosciuta come reato)
5. Non usare hashtag a caso, men che meno lunghe quanto un tweet
6. Non cercare di sfruttare i Trending Topic (peggio se non hanno senso)
7. Non mettere il puntino – o un altro simbolo qualsiasi – prima di una risposta: davvero la tua conversazione è così importante che devo leggerla? Sicuro, sicuro?
8. Chiedere retweet. Peggio se lo chiedi a un vip (fossero poi mai cose intelligenti!)
9. Parlar male di qualcuno senza menzionarlo in modo che possa risponderti (è così poco elegante)
E non lamentarti se non ti segue nessuno se nella shortbio non racconti nulla di te: hai 160 caratteri a disposizione, usali. In 140 caratteri c’è chi scrive il proprio cv, si chiama #twesume.
I giornali chiudono tra le 22 e mezzanotte. A volte poco dopo.
La concessionaria vende spazi pubblicitari che, spesso, i giornalisti non vedono se non il giorno dopo, quando il giornale arriva sulle loro scrivanie, come nelle edicole. Troppo tardi.
È così che nello scrivere un titolo o fare un’apertura il giornalista non può tenere conto di quello che ci sarà accanto.
A volte la colpa è solo di chi chiude la pagina, senza guardare i contenuti nel complesso.
Spesso, guardando di fretta un giornale mi chiedo quale sia la notizia, distratta dalla foto. Capita anche a voi?
Altre volte la colpa è della mancanza di un coordinamento tra concessionaria e redazioni. Era successo anche con il terremoto in Giappone.
4. Devi essere su Twitter perché guardare la tv sarà un’esperienza più interessante
5. Devi essere su Twitter per capire di cosa parleranno i giornali domani
E devi essere su Twitter anche se pensavi potesse esserti utile per qualcos’altro. E invece no.
Ho iniziato a twittare per ragioni puramente commerciali. Mi sono accorto che quando ero ospite di un programma televisivo per promuovere un libro o un disco, e questo aveva avuto, diciamo, un pubblico di quattro milioni di persone, circa 400 di loro si precipitavano a comprare il libro o il disco. Ho pensato che se avessi avuto un pubblico su Twitter di 400mila persone – un pubblico sintonizzato solo su di me – e avessi promosso un libro, 400mila persone sarebbero andati a comprarlo.
Davvero, a casa quando faccio la pipì non tiro l’acqua. Ho insegnato anche a Diamara a fare lo stesso. Ogni tante pipì si tira l’acqua. Non a tutte.
Più o meno come Matt Demon, co-fondatore di water.org, che ha indetto una (finta) conferenza stampa per annunciare che non andrà più in bagno fino a quando ci sarà ancora gente nel mondo che non ha acqua potabile e gabinetti.
Nel mondo una persona su 8 non ha accesso all’acqua potabile. Una su 4 non ha il gabinetto.
A Gennaio, Zeno Tomiolo ha incontrato Scott Harrison, fondatore di charity: water: L’acqua cambia tutto è una bella intervista (e se v’interessa andare a vivere a New York, date un’occhiata alla pagina dedicata al lavora con noi, a charity: water assumono!); anni fa sentii parlare di un altro interessante progetto: la roto-tanica, un contenitore di 30 litri a forma di ruota che è un sistema semplice – e igienico – per il trasporto dell’acqua potabile. Stefano Giunta e Francesco Anderlini, cercano sponsor: basterebbero loro solo 20mila euro per partire con una produzione di 500 pezzi.
Questa mattina c’è stata #womenbreakfast4 e Maurizio è stato lì in veste di papà. Un papà normale, che fa (almeno) la metà delle cose che vanno fatte, in casa e fuori, quando si diventa genitori.
Eppure sempre più mamme lasciano il lavoro (per fare un esempio: nelle Marche – regione con 1milione569 303 abitanti – 2315 donne hanno lasciato il lavoro durante la gravidanza o subito dopo, tra il 2009 e il 2012, 565 nel 2012, più di una al giorno) e sempre più spesso si dà la colpa al lavoro e a come è organizzato.
Parlarne male non fa, ma serve anche che le donne capiscano che la famiglia non dev’essere una scusa. E che i papà capiscano che neppure il lavoro dev’esserlo.
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