Mi piace pensare che ci sia un senso – non so bene quale – negli incontri che si fanno nella vita. Anni fa ho lavorato in Rai, ho fatto tanti lavori diversi da allora, ma tra gli incontri che ho fatto lì c’è quello con Andrea Sarubbi, giornalista e deputato Pd, che un giorno ho ritrovato nella timeline di Twitter: stava facendo livetwitting dalla Camera.
Le lezioni di Twitter non arrivano solo dai social media expert.
Perché hai iniziato a usare Twitter?
Perché ne sentivo parlare molto, soprattutto dagli Usa, e cominciava ad andare un po’ di moda fra i giornalisti citare la twittata di Tizio o di Caio. Così ho pensato che, se volevo davvero comunicare in Rete, non potevo accontentarmi di essere cercato sul blog e su Facebook: oltre alle riflessioni quotidiane da 450-500 parole servivano anche delle pillole più digeribili, a scadenza meno fissa. Devo dire che ora mi diverto molto più su Twitter che su Facebook, dove non ne posso più di essere taggato nelle foto ma mi vergogno di rimuovere il tag.
Lo usi come strumento per informare gli elettori: che feedback hai da chi ti segue su Twitter?
Parecchia riconoscenza, innanzitutto. Capiscono che sto facendo un servizio pubblico, che lo faccio per loro e non per me, che sto masticando al loro posto la politica per rendergliela più digeribile, che sto cercando di rendere interessanti cose che in teoria non lo sarebbero per tutti. Vedo che ai twitteri piacciono molto la battuta ironica, l’aneddoto e la sincerità: l’altro giorno, in Aula, ho fatto un intervento pessimo e mi sono autoflagellato su Twitter, ricevendo un sacco di complimenti per l’onestà e l’umiltà. Credo che Twitter sia una mano santa per avvicinare la politica ai cittadini e viceversa, ma purtroppo è un’arte ancora sconosciuta ai più: al massimo, ci pensa uno staff.
Stare seriamente in Rete è un impegno grande: politicamente ne vale la pena?
Confesso di non averlo ancora capito. Dal punto di vista dei numeri, che per me sono ancora medio-piccoli, credo di no: il mio blog – che mi costa almeno due ore di lavoro al giorno – ha un record di 2500 utenti in un giorno, ma una media di 500 scarsi; se considero che nella vita precedente conducevo una trasmissione su Raiuno, vista in media da due milioni e mezzo di persone, mi deprimo. Però è vero che si tratta di un’utenza più motivata – sono loro che ti vengono a cercare – e che in Rete c’è dialogo, mentre nei mezzi di comunicazione tradizionali (giornali, tv, in buona parte anche la radio) l’utente è solo il destinatario dell’informazione. non il co-protagonista. E poi, comunque, la Rete ha anche un indotto: più volte mi è capitato di essere citato sui giornali (o in tv: penso a una diretta di Exit con i miei tweet dalla Camera) proprio per le cose che scrivevo su Internet. Una volta, addirittura, il sito dell’Unità ha fatto un pezzo lunghissimo con tutte le mie twittate dall’Aula, definendomi – gli è scappata la frizione, non è colpa mia – “un eroe del nostro tempo”.
Hai seguito il passaparola che si è generato sui social network a sostegno delle manifestazioni di protesta in Egitto, Cina, Spagna… Secondo te potrebbe succedere anche da noi?
Sicuramente la Rete ha una forza, peraltro ancora ignota del tutto. Quello che sinceramente mi preoccupa è che questa forza è molto più distruttiva che non costruttiva. Un esempio classico è la falsa mail dell’aumento degli stipendi da parte dei parlamentari, che risale probabilmente al 1999 e che continua a fare il giro delle caselle di posta elettronica: basta che ti indigni per qualcosa, e nella Rete trovi subito terreno fertile. Domanda seria: con i social network si può anche costruire qualcosa di buono per il Paese? O la cosa più positiva che possa venire da loro è un aiuto al rimorchio per i single?
Secondo te, Internet può essere in prospettiva la nuova piazza in cui fare politica?
In un certo senso, lo è già: il tasso di discussioni politiche sui social network è nettamente superiore a quello nei bar o nei giardinetti pubblici di una città. Ma non credo che potrà sostituire definitivamente la partecipazione, che è un’altra cosa: il grosso limite della Rete, almeno finora, è che spesso rappresenta un luogo di convivenza tra migliaia di monadi, ognuna delle quali continua ad essere chiusa all’altro. Un po’ come allo Speakers’ Corner di Hyde Park, in rete si tende spesso a parlare senza ascoltarsi: manca davvero quel lavoro di sintesi che nei tanto bistrattati circoli di partito, ad esempio, si cerca ancora di fare, per cui ognuno parte con una sua idea e – dopo averla urlata – non si fa sfiorare da quella dell’altro. Almeno questa è la mia esperienza: mi è capitato poche volte di sentire che qualcuno aveva cambiato idea dopo aver letto una mia riflessione sul blog, mentre mi capita spesso di essere attaccato violentemente da chi la pensa in modo diverso. Forse internet estremizza un po’ troppo le posizioni, e questo rende più difficile la comprensione dei processi reali, che spesso sono molto più complessi di quanto non sembrino.
La politica sembra distante dalle nuove tecnologie e a te che fai livetwitting ti vedono come un alieno?
La risposta breve è: sì. Volendo essere un po’ più esaustivo, devo ammettere che ora i miei vicini di banco cominciano ad incuriosirsi e certe volte sono proprio loro a suggerirmi qualche tweet: la settimana scorsa, per esempio, non avevo visto il dito medio di un leghista a Bersani durante il livetwitting della manovra e me lo ha suggerito una mia collega. Continuano a vedermi come uno stakanovista folle, perché non stacco gli occhi dal monitor per tutta la giornata, ma alla lunga si stanno accorgendo che il mio lavoro non è inutile. Molti deputati sanno usare a malapena la posta elettronica, quindi già Facebook è una grande conquista. Il problema è che la maggior parte di loro non ha capito la differenza tra un social network e un ufficio stampa: usano Internet solo per postare i loro interventi o i loro comunicati, mentre io ho così tanta roba da scrivere che spesso mi dimentico pure di postare i miei! Inoltre, i pochi che usano Twitter fanno gestire il proprio profilo da uno staff: a mio parere, lo staff è la morte civile del social network. Come se un film fosse fatto tutto da controfigure, con le facce degli attori messe in postproduzione… o come una canzone in playback dei primi Milli Vanilli, quelli che alla cerimonia dei Grammy nel 1990 scoppiarono in lacrime perché avevano vinto un premio senza aver mai cantato in vita loro.
I parlamentari sanno dove leggere i tuoi commenti al di là del blog?
So che il mio blog è letto da molti colleghi, perché ogni tanto sono loro che me ne parlano. Lo stesso vale per il mio profilo facebook, che è piuttosto frequentato. Su twitter, invece, gli altri parlamentari in genere non mi seguono: a meno che – come talvolta accade – un mio tweet non sia letto da un giornalista, che magari ci fa un’agenzia, e siccome le agenzie vengono lette da tutti i politici, allora qualcuno si accorge dei miei tweet.
A mio avviso ognuno esprime, su blog e presenza diffusa, le proprie opinioni. I politici, quindi, possono non tener conto di direttive di partito nei commenti… è così? Qualcosa che hai scritto su Twitter o sul blog ti ha mai danneggiato?
Devo essere onesto. Così come in una cena in pizzeria non mi presenterei mai in canottiera, perché tengo sempre presente il ruolo che ricopro e penso che qualcuno potrebbe riconoscermi e fotografarmi, anche in rete non dimentico mai che sono un deputato: questo mi fa essere più diplomatico di come talvolta vorrei, mi fa rinunciare a qualche battuta da osteria, mi condiziona un po’ anche nei contenuti. Mi spiego meglio: io sono un deputato del Pd, quindi – senza rinunciare mai alle mie idee – quando mi esprimo pubblicamente (che sia in tv, sulla Rete o in un dibattito pubblico) cerco di tenere sempre presente il punto di vista della mia squadra. Leggendo tra le righe, si capisce benissimo quando c’è qualcosa su cui dissento, anche perché ho impostato tutto il mio servizio in politica sulla trasparenza e non saprei proprio mentire; allo stesso modo, però, non utilizzo internet per la polemica interna: se c’è qualcosa che non mi torna, ne parlo innanzitutto in gruppo e poi, se è il caso, lo racconto pubblicamente. Però, soprattutto nei mesi del congresso, quando lo scontro interno al Pd era abbastanza alto, alcune mie prese di posizione sul blog mi sono state rinfacciate.
C’è qualcosa che non riscriveresti?
Sì, ce ne sono diverse, anche se non le ho mai cancellate. Ma mi ricordo che il primo aprile del 2009 feci un post in cui annunciavo le mie dimissioni da deputato, spiegando che sarei ritornato a fare il giornalista. Mi chiamarono diversi colleghi e dirigenti del Pd, per capire cosa fosse successo, e quando risposi che era un pesce d’aprile rischiai le botte: il primo dei non eletti, poveraccio, stava già preparando le valigie per venire a fare il deputato, perché aveva appena letto in Rete delle mie dimissioni.
Twitter è anche un modo per restare informati, hai tempo per seguire gli altri topic, per rispondere o non hai tempo (o non ti interessa)?
Twitter è una delle mie fonti di informazione principali: credo che stia togliendo parecchi clienti alle agenzie di stampa. Rispondo spesso, cerco un dialogo con i miei colleghi (facendo finta che siano loro davvero e non i loro addetti stampa), scherzo con i giornalisti, ma soprattutto mi faccio parecchi nemici parlando di calcio, perché sono juventino.