Quello che segue è il racconto di Simone Spetia di una delle Colazioni +1 di cui puoi leggere qui.
Questa mattina Domitilla mi ha invitato a parlare di Time Management, ossia, tradotto grezzamente, di gestione del tempo. L’idea è che come giornalista radiofonico sapessi esattamente quanti sono 30” e lo sapessi trasmettere, per far capire a chi era venuto ad assistere ai miei cinque minuti di speech (nell’immagine il riassunto grafico di Sara Seravalle) quanto tempo sprechiamo quotidianamente in riunioni improduttive. Spero di averlo saputo fare, ma quel che più mi ha interessato è stata la discussione che ne è seguita, dalla quale emergono fondamentalmente alcune cose.
Le riunioni aziendali mal gestite sono, in termini di produttività del lavoro, il male assoluto. I motivi per i quali si protraggono all’infinito e ci appaiono inconcludenti sono varie. Le più comuni:
1) Quella che io definisco come sindrome da misurazione della lunghezza del pene, che può colpire indifferentemente uomini e donne, e che consiste nell’esprimere la propria opinione, ribadendola in mille modi e cercando tutte le possibili argomentazioni a favore. Lo si fa per primeggiare sui colleghi, lo si fa per dimostrare al capo che lo si ha più lungo degli altri.
2) La mala gestione dell’organizzatore della riunione (frequentemente un capo struttura) che spesso non ne definisce gli obiettivi operativi, consentendo che la discussione scivoli verso argomenti off topic, quando non è lui stesso che li introduce.
3) L’incapacità dei singoli di arrivare in una riunione con le idee chiare e con concetti da esprimere in poche parole. Questo, va detto, dipende anche da 2)
Di qui siamo arrivati a chiacchierare più in generale di gestione del tempo in azienda, di conciliazione tra vita privata e lavoro, ma soprattutto di una tendenza tipica italiana: la permanenza ad oltranza in ufficio.
Un’ampia parte dei dirigenti d’azienda italiani ritiene che il restare inchiodati ad una sedia sia fondamentale, indipendentemente dal completamento del proprio lavoro. E’ un meccanismo psicologico che andrebbe analizzato, ancor più interessante in quest’epoca, nella quale disponiamo di tecnologie che consentirebbero a chi svolge professioni intellettuali di lavorare da casa, dal parco, dalla spiaggia, dal bar della palestra, in metropolitana, sul treno. Si chiama smart working (o lavoro agile) e nei luoghi evoluti viene praticato costantemente.
Ma fosse solo la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo. Tutte le testimonianze convergono sul fatto che in molti Paesi e in molte aziende il fermarsi dopo un certo orario viene considerato un comportamento strano, un segnale di incapacità di ottenere un sano equilibrio tra vita lavorativa e professionale o, peggio, la dimostrazione che non si è in grado di portare a termine il proprio compito nel tempo assegnato.
In Italia questo non avviene. Lavoriamo 350 ore all’anno in più dei Tedeschi (fonte OCSE), ma siamo meno produttivi. Sarà mica un caso?