Venerdì, a Firenze, sono stata a teatro. Il protagonista, Ippolito Chiarello, a fine spettacolo, ha parlato del suo progetto di diffusione della cultura al teatro: fa barbonaggio teatrale in giro per le piazze d’Italia.
Porta pezzi di spettacolo, se li fa pagare un tot in base all’impegno: 3 euro un monologo leggero, 10 uno più lungo. La somma dei pezzetti fa 65 euro, la paga giornaliera di un attore.
Ha anche un sito, ma chi lo troverebbe? Anzi, chi lo cercherebbe?
Ha deciso che andar per piazze è un modo per sollevare il problema: far conoscere il teatro e innescare un bisogno.
Crea un’offerta, certo che seguirà una domanda.
Non è lo stesso per il bisogno di Internet?
Se vivi in un paese senza la fibra, se avere una buona connessione non è per te un bisogno perché dovrei preoccuparmene io che vivo a Milano e che vivo in Rete?
Perché portare non solo la Rete, ma la conoscenza di Internet a tutti migliora anche la mia vita.
Volenti o nolenti in Rete ci siamo tutti.
Nell’era dell’economia dell’informazione non scappa nessuno: il calzolaio del paese è su Internet. Ce lo ha messo uno che passava di là aggiungendo una venue su Foursquare, ma bastano anche le pagine gialle.
Senza che lui abbia fatto uno sforzo Internet gli ha già portato dei vantaggi: io sono riuscita a trovarlo.
E se il figlio del calzolaio andasse a studiare all’estero?
Il suo bisogno di Internet crescerebbe: Skype sarebbe una soluzione.
Cosa gli serve (investimento economico per pc e abbonamento a parte)?
Che qualcuno gli spieghi come si fa. Perché la rete (dei rapporti personali) la devi (ri)costruire in Rete.
Come si fa?
Come faccio io al lavoro?
In un’azienda che ha oltre 1000 dipendenti e che ha deciso di essere (attivamente) presente in Rete si può prescindere dal mostrare a tutti i dipendenti la Rete?
Un’azienda così grande sarà fatta da gente di tutti i tipi, età, competenze.
Ci sarà chi protesta e chi resiste.
Incredibile?
No, ai tempi dell’introduzione dei computer nelle redazioni i giornalisti insorsero.
Un collega de Il Giorno, dove ho lavorato per anni, mi raccontava delle lotte sindacali della metà degli anni 80 per protestare contro quest’innovazione che a loro avviso avrebbe fatto perdere più tempo.
Il tempo… della formazione.
Negli stessi anni, nel 1988 un tecnico della Xerox teorizzò l’ubiquitous computing: device e sistemi così diffusi da passare inosservati.
Oggi è già così?
Non ovunque. Succederà però presto.
Nessuno quando vado in riunione e prendo appunti direttamente sul BlackBerry si chiede se io stia mandando sms.
Come non pensano che il collega con l’iPad stia giocando.
La maggior parte dei colleghi prende appunti carta e penna e non è un male.
Ma io gli appunti scritti a penna non li rileggevo mai.
Racconto anche questo al lavoro. Che la tecnologia e Internet mi fanno risparmiare (non perdere) tempo.
Sul lavoro faccio così, racconto di fare (e lo penso) un lavoro bellissimo, un lavoro che farei anche gratis.
E racconto loro la mia vita online, la rete di amici che ho creato (o che mi si è creata) intorno.
Sono dell’idea che è questo lo sforzo che dovremmo fare: raccontare i vantaggi della Rete non dall’alto verso il basso (le aziende), né dal basso (i blogger) verso l’alto, ma da fianco a fianco (tutti e tutti insieme).
Questi sono i miei appunti per l’intervento (e più o meno quello che ho detto) alla tavola rotonda Prospettive Digitali, ospitata dal Knowcamp.
Mi piace pensare che un’idea si possa trasformare in una storia e che le storie aiutino a capire più di mille manifesti.
Per saperne di più:
SULLO STESSO ARGOMENTO (FORSE):
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